e che questa sfasatura sia il solo elemento capace di rendere possibile la scrittura, perché detonatore dell'interessante.
Forse perché si è così legati all'idea ottocentesca di romanzo, quella sintetizzata con precisione dall'incipit tolstojano di Anna Karenina – "Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo" – da non riuscire ad immaginare un romanzo che racconti di "famiglie felici".
Perché, a voler credere a Tolstoj, i racconti di famiglie felici, la cui esistenza scorre senza accidenti, sarebbero tutti uguali e, dunque, non degni di essere raccontati.
Basterebbe la lettura di un romanzo come Stoner, scritto nel 1965 dall'americano John Williams, per mettere in discussione questi pochi pregiudizi sull'interessante, in letteratura: tra le sue pagine, non accade nulla di rilevante, se non la vita di William Stoner, nella sua banale linearità.
Eppure, Williams, attraverso il racconto senza enfasi, quasi sommesso, della vita del suo personaggio, mostra al lettore che è la vita stessa ad essere motivo di narrazione, quasi come se volesse dar ragione allo scrittore David Herbert Lawrence che, qualche decennio prima, pare avesse scritto: "Nulla è importante se non la vita [...] per questo sono un romanziere". Stoner, dunque, è un romanzo sulla vita, sulla linearità dell'esistenza di William Stoner, professore universitario figlio di contadini di provincia, uomo dotato di una certa – seppur non eccezionale – sensibilità letteraria, di una passione moderata per il suo lavoro, che crede d'innamorarsi di una giovane donna, e la sposerà, anche sapendo di non essere riamato. Poi avrà una figlia che non vedrà mai crescere come avrebbe voluto, farà fronte alle scaramucce piccole e grandi delle isole sociali in cui vive – la famiglia e l'Università -, s'innamorerà di un'altra donna. Williams segue da vicino l'intera parabola sulla Terra di Stoner, fino alla sua morte, fino a non avere più una ragione per raccontare una vita che, ormai, non esiste più.
Ciò che potrebbe sorprendere chi ancora non vuole scostarsi dal significato di superficie di quell'incipit di Tolstoj è che Stoner è in effetti un romanzo "interessante", nel senso di "degno di interesse"; è una storia che sa coinvolgere il lettore nei suoi semplici risvolti, nei compromessi e nelle provvisorie strategie di protezione dalle offensive della quotidianità.
Con Stoner, Williams mostra che "nulla è importante se non la vita" e che l'inaccadere, in letteratura, può contare almeno quanto la deviazione, perché riflette la condizione umana nel suo essere prevedibile, ripetitiva e per questo, in una certa misura, rassicurante. D'altra parte, Stoner mostra anche che ogni vita, anche la più apparentemente insignificante, è unica, e, pur nel suo essere paradigmatica, presenta nodi inattesi. Perché l'uomo è impreparato anche di fronte alla normalità, e, forse, proprio la normalità e l'assenza di cambiamenti degni di nota sono, allo stesso tempo, tra le sue più grandi aspirazioni e tra i suoi più temibili – perché trascurabili – drammi.
John Williams, Stoner, New York, The Viking Press, 1965¹, tradotto in italiano da Stefano Tummolini, Fazi Editore, 2012.
John Williams, Stoner, traduit par Anna Gavalda, Paris, Le Dilettante, 2011