su intenet, o nel corso di seriosissimi convegni , nelle discussioni con gli amici. Se ne scrive sui giornali, sui blog e si argomenta.
Al centro dell'attenzione c'è sempre lui, il libro digitale, che fa porre tante domande su questa nuova, complessa editoria dell'immateriale e su quei bizzarri aggeggi a metà strada tra un tablet troppo piccolo e un telefono un po' ingombrante che sono gli e-reader.
Ho sentito argomentazioni di tutti i tipi, spesso ben articolate, espresse con la veemenza di un pamphlet come non se ne scrivono più, ormai. Ci sono quelli che ne fanno una questione per puristi del libro « tradizionale », da integralisti dell'odore delle pagine, o di sommelier della carta e dell'inchiostro, che ti parlano dell'emozione del contatto fisico con « l'oggetto letterario ». Ci sono quelli che, invece, si pongono questioni da economisti apocalittici provetti, e parlano del crollo delle vendite di libri, per colpa dell'arrivo degli e-reader. Ci sono gli enstusiasti filo-tecnologici che si comprerebbero pure il foglietto illustrativo dell'aspirina, in formato e-book, pur di possedere l'ultima novità fatta schermo e cristalli liquidi.
C'è tutta questa varietà, che potrete conoscere molto meglio leggendo questo articolo qui, di Jacopo Cirillo (che ho conosciuto nel 2011, in una di quelle tavole rotonde di cui vi dicevo prima, organizzata dal GREC) che vi spiega con tanta accuratezza le varianti del fenomeno.
Il fatto, però, forse, è un altro. Ci pensavo l'altra sera, leggendo una delle raccolte di racconti più belle che abbia mai avuto per le mani, proprio su un e-reader. Su un oggetto pieno di pixel, bianco e grigio-argento, più leggero di quei calcolatori scientifici che usavamo al liceo. Un testo letterario del secolo scorso, letto su un oggetto che nemmeno è più iper-tecnologico (mi sembra di capire che ogni mese, circa, si parli di un nuovo lettore digitale di libri, descrivendolo puntualmente come una autentica innovazione tecnologica).
Il fatto, dicevo, è un altro.
Quando si parla dell'odore della carta – vero, eh, nessuno sta sostenendo il contrario -, si parla in realtà del libro, e cioè del supporto che permette la lettura. Di quello che alcuni di voi chiamano medium, mi sembra (coraggio, adesso citatemi McLuhan, tutti insieme, da bravi).
Quando si parla di e-reader, invece, si parla di tecnologia, che, no, non è il male assoluto né il dio degli anni Dieci di questo secolo.
Quando si parla di editoria digitale, poi, si parla di economia – e meno male che se ne parla (solo, per favore, voi apocalittici, potreste rivedere un poco le vostre posizioni, qualche volta?).
Quando si parla del lettore, infine, di come può cambiare l'approccio alla lettura nel passaggio da libro a e-reader, di come la scelta di un libro in formato epub piuttosto che in formato cartaceo influenzi poi il rapporto col testo e tutte queste belle storie, ci si rifersice a qualcosa a metà strada tra sociologia e antropologia, mi pare. Ci sono anche quelli che azzardano discorsi di estetica della lettura, pensate.
Non si parla, però, di quello che c'è dentro il libro o l'e-book. Non si parla mai abbastanza della narrazione, non si parla della scrittura, non si parla di quella cosa meravigliosa, capace persino di cambiarci la vita, che è la finzione letteraria. Perché, che si legga un e-book, o un feuilleton su un quotidiano di carta grigiastra e maleodorante, che si legga un volume tascabile o un'edizione di pregio, quello che ci emoziona, chi ci fa indignare, che ci fa viaggiare, che ci rende persone diverse, rispetto al momento prima della lettura, è l'immateriale, è la scrittura che sta dentro. Che sia letteratura (tanto meglio per noi) o solo buona narrazione, poco importa.
Quello che conta è leggere. In fondo, una poesia vera, possiamo trovarla persino scritta sui muri. Occorre saperla riconoscere, là dove si trova, al di là del mezzo.