dal frullatore temporale degli anni Ottanta-Novanta, con felpe viola pastello, occhiali spessi, e baffetti ben disegnati. Un misto tra quella categoria di persone che amano definirsi hipster – ma chissà poi cosa vuol dire, veramente, hipster – e quell'altra categoria di « appena-scesi-dal-letto ». Si sa, il venerdì sera stanca; e infatti, il sabato, ristoranti e bar del quartiere sono pronti ad offrire, agli stanchi del sabato mattina, ricchi (ma leggeri, così assicurano) brunch, fatti di uova strapazzate, o come le volete, accompagnate da salmone affumicato, croissant a volontà, cappuccini vegani e fiumi di succo d'arancia arcobaleno. Il tutto, rigorosamente biologico.
A me piace osservare questa bizzarra specie del genere umano, così camminavo per le strade di questo arrondissement, dopo aver fatto un giro in libreria, con un grosso ananas in mano. Cosa volete, c'è chi sventola una pochette di finto coccodrillo in plastica riciclata e chi si porta dietro, con disinvoltura, un ananas maturo. L'accessorio, spiegano le riviste di moda, va scelto con cura e adattato all'immagine che volete trasmettere agli altri.
Io devo essere un soggetto da ananas maturo, devo avere una personalità che si presta bene allo sfoggio di tali «complementi del look», perché riesco a passare inosservata e ad attrarre altri soggetti da ananas maturo. O da un altro frutto qualunque.
Osservavo una vetrina che esponeva poltrone, borse e parka di vera pelliccia animale, quando, un signore, accompagnato da una splendida borsa piena di arance, mi si avvicina. «Ecco come fanno, – mi dice – guardano le vetrine e passano di fiore in fiore, come farfalle. Acquistano tanti oggetti e poi se ne dimenticano. Ecco come fanno». Dapprima non capisco bene se ce l'abbia con me o no, in fondo ho comprato solo un ananas inoffensivo; allora lo guardo meglio: ha occhi azzurri e capelli bianchi, il naso rosso e un sorriso appena percettibile, ma gentile. Così mi limito ad annuire, ad aspettare il seguito di quello che, lo sento, sta per raccontarmi.
Mi dice del quartiere in cui vive da quarantacinque anni, mi racconta di come sia diventato il tempio dei « creativi » - e fa una smorfia da bambino -, e di come la ricchezza si sia spostata, trasformata, di come sia migrata nelle mani degli « stranieri », sottolinea. Poi torna alla vetrina e, indicandomi una borsa verde scuro mi chiede : « E lei che fa, di lavoro ? ». Inizio a spiegargli che seguo un dottorato e che mi occupo di letteratura, ma non faccio in tempo a finire.
Lui spalanca forte gli occhi e mi dice : « Morto. Tutto morto. Molto meglio occuparsi di pelletteria. Di borse ». « Ma potrei non averne il talento », replico, esitando. « Ma quale talento? Il talento s'impara. E poi non esiste mica solo un mestiere nella vita. Faccia pure la letteratura, ma faccia anche le borse. Vedrà che le verranno meglio entrambe le cose. Sa, mia moglie faceva... ». S'interrompe, guarda il menu del brunch esposto su una lavagnetta, sul marciapiedi di fronte, e risorride. « Abito nel quartiere : ci rivediamo qui, eh. E su col morale ».
Non ho parlato molto, ma forse è questo l'effetto che può fare spiegare a qualcuno che ci si occupa di letteratura.
Ho guardato il mio ananas, la mia busta coi libri, e ho cercato il métro.
Magari mi metterò pure a creare borsette, ma, ancora per un poco, alla letteratura ci voglio credere.